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Intervista

Anno 2000. La sociologa Prof.ssa Milena Gammaitoni, associata dell’Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Scienze della Formazione, intervista Gianpistone nel suo Studio.


Scrisse Van Gogh: “Cos’è dipingere? È un muro di ferro che si oppone tra ciò che si può e ciò che si vuole, sbattere con forza non serve a niente, occorre limare con pazienza, continuamente”. Cosa significa dipingere?

Dipingere… cosa sia non lo so. Per me è sempre un miracolo. Ma della pittura io so molto poco. Quando comincio non sono mai certo di finire una tela e che finisca bene, sta di fatto che quando è finita non ci rimetto mai le mani sopra. La grinta, la voglia di arrivare c’è sempre, per questo ho lavorato a cicli. Ogni ciclo ha la sua storia, perché noi cambiamo. Una delle cose che mi ha intrigato con gli anni è vedere come il ciclo si impossessa di te, non sei tu che lo determini… per esempio uno dei cicli più importanti dopo le Cattedrali, che senza dubbio mi ha portato i primi successi, è stato Entromondo. Entromondo mi ha imprigionato per parecchi anni di lavoro.

 

Perciò cosa diventa la pittura tra la sinistra e la religione?

Questo è un tema affascinante, io credo che la religione è una sola, nel senso della spiritualità, che ha tante sfaccettature, se c’è Dio e io lo cerco senza dubbio, è uno per tutti. Ha tanti nomi, ma la faccia è solo una. Credo che oggi ci sia una spiritualità che sta rinascendo con tante facce, alcune delle quali sono brutte. Però se dobbiamo dare una risposta a questo mondo consumistico, materialista e superficiale non possiamo non cercare di scoprire lo spirito. Io posso definirmi non un ateo, ma un laico con una dose di aspirazione spirituale come risposta alle disgrazie del mondo, alla fame, alle disperazioni. Lavorando con i malati di mente con gli handicappati tu vedi il malessere della gente e avendo viaggiato molto ho visto disperazione in Cina, in India, in Africa, un po’ dappertutto. Rispetto a questo tu non puoi non sperare che ci sia un cielo che possa rasserenarsi su queste creature e quindi… da laico credo che sia necessario credere, se poi oltre a credere si riesce a fare qualche cosa… Io una volta al mese vado a Napoli e non è che metto in pace la mia coscienza, però se il cielo mi ha dato il dono di usare i colori meglio di altri, io devo ringraziare il cielo e quindi mi occupo di quelli di cui non si occupa nessuno.

 

Come?

Lavorando, facendo dipingere, alcuni ragazzi, definiti handicappati, fanno teatro a Napoli, stiamo preparando uno spettacolo molto divertente, è una pièce… dove loro hanno altri ritmi. Ma il pubblico necessita di un ritmo tradizionale, allora cosa ho fatto? quando si incantano ho pensato di creare una scena parallela, ho messo un barbiere, questo barbiere come si incantano gli mette il sapone e gli fa la barba! E quindi questo gli dà un ritmo. Sono due teatri contemporanei. Ogni tre, quattro ore mi telefonano, mi dicono come vanno le prove. È divertente. Poi c’è una ragazza che quando canta! Ha una voce che piangi per la bellezza, ha le mani rattrappite, ma diventa bellissima, bellissima. E se tu vedi queste cose non puoi non capire… la vita è una cosa straordinaria! Io lavoro con loro e mi arricchisco.

 

Cosa significa essere sani?

Non esiste il sano, non esiste il normale! Io penso che sono più normali loro di noi. Noi facciamo un pessimo uso della poca intelligenza che abbiamo. Mi affascina la ricerca di vita in casi dove si rinuncia a cercare la vita.

 

Come è iniziata?

È iniziata con la consapevolezza che io ero un handicappato, nel senso che avrei voluto fare il musicista e non l’ho potuto fare perché ero un pesta note, avrei voluto scrivere poesie ma le mie poesie erano brutte e ne ero consapevole. La musica per me è stata sempre una cosa… l’ho studiata fin da ragazzo, ho fatto l’Accademia. Per cui avere delle aspirazioni e capire i nostri limiti significa essere handicappato. Per esempio il ciclo delle maschere, l’ho fatto con ottanta handicappati, certo io lavoravo molto, però oggi c’è un museo in Sicilia con cinquecento maschere. Ora stanno facendo quattro tesi di laurea. E questo è il risultato di un lavoro di gruppo, eravamo più di cento persone, io ho finanziato la cooperativa per più di vent’anni, poi sono fallito, non ce la facevo più e ho dovuto chiudere, mi son trovato a fare il pittore. Questo è il mio lavoro.

 

Quanti anni aveva?

Ho iniziato tardi perché prima ho fatto lo scenografo, poi facendo la corte ad una ragazza che mi piaceva molto, non mi si filava per niente, però mi dava buoni consigli, e un giorno mi disse “Sai che la Rinascente ha un vetrinista dà centoventimila lire al mese?” Allora io il giorno dopo misi un inserzione, ero ancora a fare la naia in Marina. Per fartela breve misi questa inserzione e cominciai a fare il vetrinista. E in una di queste occasioni venne un personaggio molto famoso, che si chiamava il Mago di Napoli, un personaggio tipo Mike Bongiorno, ma più importante ancora, e mentre facevo la vetrina mi chiamò “Vieni, vieni giù! -mi guardò e disse- questo diventerà un grande artista”. E tutti sghignazzavano, “Che sta a dire, questo è un vetrinista!” ripete “Tu diventerai un grande artista”. Per cui filavo con una cantante e questa ragazza qualunque mia profferta amorosa o faceva freddo, o c’era la paura della voce, insomma io andavo sempre letteralmente in bianco. Alla fine mi sono stufato. Quando l’accompagnavo alle prove, tutti mi chiedevano “Ma tu sei un artista, canti?” Non potevo dire faccio il vetrinista, il suo Maestro, un aristocratico, mi guarda e mi dice “lei dovrebbe fare qualcosa di artistico perché ce l’ha scritto in faccia”. E io sai cosa ho fatto? Era Giovedì sedici, sono andato da un coloraio, ho comprato due cartoni, i colori e il giorno dopo alle cinque mi sono messo a dipingere, diciassette giugno 1953, dopo sei mesi già facevo le Mostre, dopo un anno vincevo il premio alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, e così ho cominciato. Ma è cominciato senza niente!

 

Non aveva mai studiato, pitturato

No, non sapevo nulla. Pensa che un giorno incontrai dei pittori che per me erano dei personaggi e gli chiesi come facevano con l’olio. Uno mi rispose: “con dell’ottimo olio extra vergine di oliva”. Io misi l’olio vergine di oliva e le tele non si asciugavano! Dopo di che feci una Mostra, questo venne, mi guardò e io gli dissi “con dell’ottimo olio vergine di oliva!”

 

La sua famiglia, i suoi genitori cosa facevano?

Noi siamo otto figli, viventi e io sono il meno giovane. Era molto difficile, molto. Mia madre faceva figli, ed era sempre incinta, c’era sempre quell’altro che arrivava, perciò io essendo il più grande dovevo occuparmi dei pannolini, della spesa, cucinare, fare tutto, ho imparato a cucinare a sei anni, le pappe. Le fosfatine falier, si davano ai bambini: si prende la farina bianca, si mette in un tegame e si mescola sul fuoco fino a quando non prende un colore d’oro, poi si mette il latte, si mescola e si dà la pappa ai bambini. Questo è quello che si mangiava.

 

È nato a Roma?

Sì, poi papà era un militare, quindi lo spostavano continuamente. Sono stato nel Veneto, nel Friuli e poi in Liguria, c’era una casetta diroccata.

 

In famiglia c’erano artisti?

Da parte di mia madre erano tutti intellettuali, uno era senatore, un medico, poi un antenato è uno dei grandi artisti che ha affrescato i Musei Lateranensi, a San Giovanni, quindi c’era molto lontano un nobile… io ho un sedicesimo di nobiltà. Non so dove ce l’ho, comunque un sedicesimo di nobiltà e… è stato tutto un gioco, sai.  Un caso, quando dico tigna, che io ho la volontà, io non sapevo fare niente, sempre cercando, cercando, cercando, non ho avuto la fortuna di andare nelle scuole. Nei primi anni ‘70 cominciavano a fare le Tesi di Laurea sul mio lavoro.

 

Hai partecipato alla Resistenza?

Sì, ho fatto la staffetta, ho preso tante botte, ho visto tante volte la morte, ho visto fucilare.

 

Eri consapevole di quello che avveniva?

Ma sai, consapevole… è un discorso difficile, particolare, tutto è cominciato perché a quindici anni ho avuto la difterite e quindi ho cominciato a vedere la morte, ero molto grave.  La bambina che stava vicino a me morì, io le tenevo la mano, sentivo che diventava fredda, una cosa terribile vedere morire i bambini. Mio padre era militare, prigioniero in Germania, nella casa che avevamo ricostruito i tedeschi misero i cartelli “zona infetta, vietata” questo sopra San Remo. Mia madre aveva trovato un lavoro, faceva la cuoca per i fascisti, i partigiani dormivano a casa mia, io facevo la staffetta per loro fino al paese dove stava mia madre, ogni settimana venivo a prendere il pane, mi facevo ventisei chilometri a piedi con le scarpe in mano, perché se si consumavano non ce le avevo, quindi camminavo scalzo. Ho fatto quello che mi dicevano di fare. Non potendo parlare a mia madre che era fascista. E questo era un grande dramma, perché io amavo mia madre, però non le sapevo perdonare che credesse in queste cose.

 

La spiritualità nasce fin da piccoli, ed in te come nasce sulla tela?

Nasce quando accade un fatto particolare. Una notte ci fu un attacco in forze dei partigiani, al paese dove stiamo, l’ultimo libro, pubblicato postumo di Italo Calvino, racconta questa battaglia, però lui la racconta da un lato, io sto dall’altro. I tedeschi stavano a casa nostra e arrivano i partigiani, io gli dissi di stare zitti, perché sarebbero morti. I partigiani fanno una grande battaglia, perdono un partigiano. Finita la battaglia trovo un uomo legato in mezzo alla piazza che si lamenta, sanguinante, il Cristo sulla croce era niente rispetto a come avevano ridotto questo ragazzo. Allora io busso a tutte le porte sulla piazzetta di Baiardo, città disgraziatissima.  Busso a tutte le porte e chiedo un bicchiere d’acqua, alla fine aprono una porta, mentre gli do da bere, arrivano due tedeschi, mi colpiscono in mezzo alla schiena e rimango steso per terra, io sto tutto il giorno steso per terra. L’indomani alle cinque arrivano due bersaglieri e zoppicando facciamo tutta la strada del paese parlando con dietro il prete e il plotone d’esecuzione. Quindi parlando arriviamo al muro del cimitero, io non ho sentito niente, nulla, solo quando gli hanno sparato il sangue mi è schizzato addosso, io stavo di fianco a lui. Quindi posso garantirvi che a sedici anni un’esperienza così non è che si possa dimenticare.

 

Dalla Resistenza alla Repubblica per arrivare all’arte?

Io pensavo di meritarmi una Repubblica più onesta, più pulita, invece la Repubblica venuta fuori non è che mi sia piaciuta. Non mi piaceva allora, figurati adesso. Ero un idealista. L’arte arriva come sogno, come qualcosa di irraggiungibile, una cosa che scavavo sempre dentro, che volevo fare, che volevo esprimere.

 

Cosa era da giovane?

Agli inizi pensavo che riprodurre la realtà, copiarla, interpretarla, già era fare arte. Con gli anni, le esperienze, l’Oriente, sai sette anni in estremo Oriente non è che non cambiano, cambiano eccome, allora capisci che figurare solo non è sufficiente, comincia a venir fuori il tema della spiritualità vista in altre dimensioni, poi grandi incontri, grandi esperienze. Nei primi viaggi avevo meno di 35 anni. Erano già molti anni che dipingevo. Sai in Oriente ho fatto delle esperienze molto strabilianti, come le esperienze dell’infanzia, dell’adolescenza sono state crude, crudeli…

 

I primi quadri cosa ritraevano?

Roma di notte. Perché non avevo lo studio, quindi prendevo le tele la sera, finivo di fare le vetrine e andavo a dipingere Roma di notte. Vivevo in una camera ammobiliata insieme ad altre due persone, in Via Candia. Dovevo nascondere le tele da tutte le parti, sopra gli armadi, la padrona di casa diceva “c’è odore di colori!” aprivo le finestre.

 

Come si manteneva?

Facendo il vetrinista. L’ho fatto fino alle prime mostre, poi ho smesso negli anni fine ‘60, inizio ad occuparmi di psicoanalisi, dopo i primi viaggi in India inizio la mia prima analisi con un Freudiano e un Junghiano. Ho proseguito con lo Junghiano. Dopo un anno mi propose di lavorare con Dora Bernardh. Così ho cominciato ad occuparmi di psicoanalisi senza aver mai pensato di fare lo psicanalista.

 

Il suo maestro di pittura?

Da tutti ho imparato qualcosa. Anche se poi ti rendi conto che il maestro è dentro di te, non è che ce ne sia uno in particolare che prevalga.

 

Forse quando si riconosce si è già lasciato?

No, io dico che tutti sono miei maestri. Nel senso che se io vedo un dilettante dipingere Lungotevere, capita spesso, io mi fermo a guardare. Sono incantato, anche se dipinge in modo tradizionale, mi emoziona vedere qualcuno che dipinge. Come quando vado a vedere le Mostre, le ho viste a tutte le latitudini possibili e mi piace, mi diverte. Se è un pittore mi entusiasma.

 

Non era alla ricerca di una guida reale, vivente?

No, la cercavo più nei libri che leggevo, nei viaggi, più che nelle persone in sé e per sé, poi in Oriente ho avuto grandi maestri, si potrebbero scrivere dei libri. Mi hanno insegnato molto, soprattutto i buddisti.

 

Quando ha detto “sono un artista”?

Un folle non esce mai dalla sua follia! Ognuno ha le sue illusioni. Quando non lo so! La cosa divertente è stata che quando ho fatto la Mostra al Vittoriano è venuta fiumi di gente, venivano anche pittori incazzati verdi, lividi di rabbia, ogni tanto sentivo questa frase “ma questo è postumo” io dai a toccarmi in quel posto… mi divertivo molto. Credo che non verrà mai il momento in cui dirò che sono un grande artista. Che sono un pittore non c’è dubbio, perché da ragazzino sognavo non di fare il pittore ma di fare le figure. I bambini dicono fare le figure, non il pittore. Quindi per me fare le figure è sempre stata una cosa di enorme fascino, perché imprigioni delle realtà che sono dentro la mente e riesci a metterle lì sopra, a farle vivere, farle lievitare… è una grande magia. Mi ricordo la prima volta che vidi un pittore a Verona io rimasi incantato. Nel vedere i colori lì che non avevano nessun senso, la tavolozza sporca e poi  diventavano le cose reali… era una magia. Mi ha affascinato. Me lo sono portato sempre dentro.

 

La prima persona che l’ha scoperta, che le ha detto di fare una mostra… come è accaduto?

Sai parliamo di 500 Mostre fa, è difficile ricordare tutto. Ci sono degli episodi che sono divertenti, ad Imperia per esempio venne uno e mi disse: “voglio questo, voglio questo, questo e questo”. Finita la Mostra e non avevo venduto nulla tranne quelli comprati da quest’avvocato. Gli telefono e mi dicono: “Non si preoccupi, prenda tutto perché l’avvocato non verrà a ritirarli”: Insomma lui comprava ma era interdetto dalla famiglia! Quindi io ho incartato tutto (ride). Il mio rapporto con i folli è un rapporto costante… ma quanto ci sono rimasto male, ancora lo ricordo!

 

Il primo quadro venduto?

Ad una persona molto generosa per avermi dato credito. Però non ricordo chi sia.

 

Ne ha regalati?

Dopo me ne sono quasi sempre pentito. Le disavventure sono infinite, una volta un critico d’arte prese delle tele senza pagarle… Poi molta gente alla quale le ho regalate le ha vendute… non sempre regalare le tele è una buona operazione, non sai mai fino a che punto la gente ti ama. Ho regalato delle tele a dei poveracci che non potevano comprarle, ma non perché me l’hanno chieste, perché io gliel’ho volute dare, perché se le avessi date a tutti quelli che le chiedevano! Non avrei tele nello studio. Quelli che meritano di avere il tuo lavoro sono pochi. Con gli handicappati è frequente che lo faccia.

 

In viaggio scrive.

Si, scrivo sempre, sempre.

 

Disegna?

Molto, porto un rotolo. Negli ultimi viaggi no, ho smesso. Di solito un rotolo sono venti tele, settanta tele che disegno sul posto, per esempio tutta la Via della Seta l’ho fatta così, i primi viaggi a Pechino, nel Sud, in Thailandia in Cambogia, Pakistan, Afghanistan, poi se ci torno… di meno.

 

Questo studio quando l’ha preso?

Nel ‘66. prima ne avevo un altro. Ho fatto io il teatrino lì sopra, ci ha recitato Albertazzi, Proclemer, Zavattini, tanti. Un Venerdì sì e uno no facevamo lo spettacolo, una  serata dove la gente restava a cena e c’era il teatrino delle 23.

 

Costava molto.

C’è stato un tempo in cui nel mercato andava molto bene, forse le tele erano più semplici, più facili. Poi facevo tante Mostre.

 

Cosa intende per “più facili”?

Nel senso che erano tele più leggibili, più colorate, non ho sempre dipinto in questa maniera. Ci sono tanti periodi, dopo Entromondo, c’è stata Natura Mirabilis, poi la Via della Seta, poi i Colori del Sacro, poi L’origine della Scrittura, poi Memorie, Ierofanie, Shamballa.

 

Pensa a chi interpreterà quel quadro?

No, non mi pongo il problema perché la gente che sa guardare è poca. I quadri a Porta Portese con luce e archetti tutti li sanno apprezzare, non c’è gusto, preparazione. Se tu fai una pittura in tela come Shamballa dove ci sono cose che si vedono e non si vedono… è inquietante, richiede una capacità di lettura che è più rarefatta, è più difficile. D’altronde credo che se ci si evolve si cresce sempre in modo più misterioso, più arcano, la tela diventa qualcosa di più prezioso, che richiede di imprigionarti nel cercare, perché tu guardi la tela, ma la tela guarda te. C’è qualcosa che si ribalta costantemente nei ruoli. Mentre prima dipingevo in maniera più semplice, più immediata, era un altro genere di pittura. Io detesto la critica quando inneggia artisti solo perché per quarant’anni hanno dipinto come Capogrossi sempre il pettine, Fontana i tagli. Fare le cose in serie è un po’ un imbroglio. I primi stracci di Burri sono incredibili, io ho dipinto sui sacchi perché non potevo comprarmi le tele. Era una necessità. Però poi Burri… io credo che non sia serio, non è onesto che una volta che si è trovato il modo di esprimersi si faccia l’orto… come Miccioli. È una sigla, mi sembra un imbroglio, però la critica ha osannato questi perché permetteva di vedere il quadro da lontano e fare una bella figura. Io invece… ogni ciclo mi pare che debba essere un’impronta nuova, diversa.

 

Jean Cocteau disse di Picasso che “fu un pittore che si occupò solo di ciò che lo riguardava, un pittore di sé dei sogni in cui vive è un cattivo pittore se non solleva un sipario su nulla”.

Ma sai, credo che dobbiamo sempre dividere le scatole, come le scatole cinesi, la prima scatola è quella di chi fa i quadri, dove tutto è raggiungibile, tutto semplice, la seconda scatola è quella degli artisti e questa scatola è già più complessa, perché c’è una parte della scatola che non è comprensibile. Ma questo non significa che non sia pittura, è una pittura non leggibile al primo impatto. Poi c’è un’altra parte della scatola in cui ci sono pittori che cercano, e io credo di essere tra questi, di imprimere sulla tela delle valenze che comunicano suggestione. Perché il fine della pittura qual è? Raccontare delle storie, ma le storie in questi secoli sono state raccontate tutte, per cui tu devi poter dare alla tela una valenza che abbia qualcosa di inedito, non voglio dire nuovo, è una parola consumata, qualche cosa che possa darti un’emozione. Quando ero un giovane pittore pensavo che fare una piazza, con una fontana, dove diventasse tutto tondo, dove gli schizzi fossero veri. Oggi se devo dipingere quella stessa fontana suggerisco che quella è l’acqua, però so che è un imbroglio e lascio capire a chi guarda, gli schizzi della fontana sono fantasia, sei tu che li fai diventare schizzi. Spero di arrivare al punto in cui gli schizzi non si vedono più, tu li senti e li percepisci nella trama dei colori. Questo a mio avviso è svelare, come diceva Cocteau, il sipario su un’altra realtà, il problema è che questa realtà deve toccarti, deve, non dico rubarti, ma fare percepire che il pittore ha inventato quella situazione, quella cromia, quell’insieme di valori in primo piano, in secondo piano, immaginari o plausibili. L’opera deve intrigare, se l’opera non ti intriga è un quadro, e se è un quadro appartiene ai quadrai. Fare il pittore è un’altra cosa.

 

L’arte è veritativa?

Non credo, io credo sempre che l’arte è un imbroglio. Ma imbroglio nel senso del gioco. Però è un gioco in cui tu hai solo una superficie, non hai come nella scultura la possibilità del tutto tondo. Il pittore deve essere abilissimo nel velare e svelare, velare e svelare. In molte di queste tele ci sono una quantità enorme di segni che faccio all’inizio, poi devo annullarne metà, tre quarti, perché sono superflui, perché farei una cartolina,  farei un quadro nel senso tradizionale del  termine. Quindi questo svelare, come diceva Cocteau, se tu riesci a tenere questo equilibrio, è tutto lì, fai un’opera, se no fai un quadro, torniamo ai quadrai. È un passaggio su una lama, di qua c’è il passaggio, il convenzionale, di là il nulla o l’incomprensibile. Io sono terribilmente legato all’esigenza di raccontare cose che siano comprensibili, non avrei nessuna difficoltà a fare l’astratto, potrei farlo da quarant’anni. Ho l’esigenza di fare le figure. Il mio sogno da bambino era fare le figure, questo è quello che mi tiene ancorato a figurare, ad essere ancora figurativo. Dare dei suggerimenti, se racconti tutto chi guarda non ha bisogno di guardare, la tela è già vista. Se tu invece gli permetti di entrare nella tela, senza il discorso che facevano alcuni grandi “entri nella tela per quel giallo e poi passi a quello” no è troppo banale! Far entrare per quel colore che imprigiona, che cattura. Il discorso di una tela come quella (indica una tela nello studio) dove i colori sono così affini è quello di riuscire a lasciare che lo spettatore scelga in quale punto della tela entrare.

 

È così importante cambiare gli strumenti i materiali nell’arte contemporanea?

Questo lo devi chiedere a loro. Io sono un mediocre disegnatore, ne sono consapevole, quello che è importante sono i colori. Come li metto, come li abbino, come li mestico e… ogni tela deve essere una tavolozza diversa. Vedi, quella tela lì ha colori diversi dall’altra, ogni tela mi da un accordo musicale, la musica per me è una parte molto importante, perché colore, suono e numero sono la stessa cosa. Non c’è differenza, la magia dei suoni, la magia dei colori è la stessa cosa. Il problema è se noi dei suoni ne facciamo una canzonettaccia. E lo stesso per i numeri, i numeri hanno una magia straordinaria. Io ho studiato un po’ di Kabala, è una cosa affascinante, è affascinante come si possa scrivere il nome di Dio, e questo nome ha una valenza che solamente chi è iniziato a quel livello può leggere il nome di Dio. E non si può scrivere. Quindi lo puoi solo memorizzare e simboleggiare, con la prima lettera o con l’ultima. Perché il nome di Dio è sacro.

 

L’esigenza del mercato porta a non credere che si possa vivere della propria arte

Io ho sempre ignorato il mercato, come il mercato ha sempre ignorato me. Ho avuto la fortuna di incontrare qualcuno che s’è comprato qualche tela, con la quale io ho ricomprato altri colori, altre tele, ma il mercato come mi è stato proposto più volte io non lo accetto. Sette mesi fa ho avuto una proposta di centinaia di milioni per fare quello che mi si chiedeva, cioè delle tele piccole, molto simili tra loro. Per cui avrebbero venduto tutto. Ho rinunciato a 680 milioni! E quando dicevo “io non posso fare 30 tele al mese” mi dissero “E che le deve fare lei?” ci sono gli assistenti che le fanno. Questo è il mercato dell’arte. E non sono parole.

 

Come si ì mantenuto?

Ci sono stati anni più facili. Poi anni più difficili. La cooperativa mi è costata milioni (di lire, ndr) avendo un nome riuscivo a vendere.

 

Cos’era la cooperativa?

L’obiettivo della cooperativa erano i miei sogni, realizzare certi progetti, come l’antropologia delle maschere ed il lavoro su Mille e Una Notte. Per cinque anni ho lavorato per produrre tutti i materiali per le Mille e Una Notte con le marionette e ho speso cifre astronomiche, abbiamo fatto una grande mostra al Festival dei Due Mondi a Spoleto nell’88. Bisognava fare il numero 0 e io non avevo i soldi, 300 milioni. Poi mi fecero una proposta che significava tradire lo spirito del racconto, dell’Islam, fare uno spettacolo che andava in onda e mezzanotte, pepato, scollacciato… significava tradire totalmente lo spirito di Mille e Una Notte dove un uomo vede una donna bellissima e l’emozione lo fa svenire. Questa favola dentro la favola dentro la favola, la freschezza. Ho preferito non farlo. Il materiale sta qui, andrà a finire in un Museo, spero presto.

 

Cosa significa “amore e conoscenza”, lo ha scritto in Ierofanie?

Significa che non c’è vendetta rispetto alle carognate. Quando Entromondo è stata assicurata per un miliardo, nel 1972, sale su un tir e parte per andare ad una mostra, la polizza di assicurazione non era mia, era dei mercanti, il tir prende fuoco e io perdo tutto. Non c’è più, non esiste più. Hanno preso 660 milioni sulla mia pelle, nessun artista, nessun critico hanno detto una parola su questo scandalo.

 

L’arte è per l’uomo comune? Esiste per essere riconosciuti dall’uomo comune?

Io penso che o tu lavori per il mercato, e allora sottostai alle sue regole, se il mercato dice di fare la puttana tu fai la puttana e sorridi. La categoria che detesto è chi fa nascere il mercato della puttana, chi paga. Un pittore dovrebbe lavorare per quello che ha dentro, e dovrebbe prescindere, se riesce a vivere, dal mercato. Allora si fa un discorso di autonomia, per questo non me ne frega niente delle mode. Già prima della Pop Art si utilizzavano materiali strani! Se si studiasse un po’ la storia dell’arte ci si renderebbe conto che è stato fatto tutto. Quello che oggi si può fare è mettere delle emozioni nella tela, se queste emozioni si vivono allora si riescono a trasmettere. Questo è la pittura. Se la moda lo scopre bene, altrimenti lo scoprirà dopo morto. Ma non cambia. Non posso pormi il problema se piacerò o non piacerò, non mi riguarda! Il mio ruolo è fare le figure, quello che accadrà dopo… certo se riuscissi a vivere in maniera più confortevole sarebbe meglio.

 

Allora si può essere artisti solo se benestanti!

Ma io non sono mai stato un borghese, purtroppo. Nel senso che non mi sono mai macerato quel po’ di cervello che ho. Credo che la cosa importante è l‘autenticità. Può esistere sia nell’astratto che nel figurativo, sia se si è alti o bassi, magri o grassi, è ciò che tu fai, ciò che racconti che deve dimostrare autenticità. Certo, non posso riconoscere la critica di oggi. Per avere qui un critico devi pagare anticipato? Allora io se non pago non esisto? Non voglio esistere per questa critica se devo pagare! (urla, ndr)

 

È utile l’arte?

È indispensabile. Perché senza arte siamo delle bestie, nel senso più deteriore, io ho un grande rispetto per gli animali, gli animali sono una cosa, le bestie un’altra. Perché l’arte è quella che ti fa vedere se hai occhi per vedere, se hai anima per ascoltare. L’arte è un nutrimento indispensabile, se oggi c’è tanta barbarie è proprio perché non c’è rispetto e considerazione per l’arte. Oggi un artista è quello che fa spettacolo. È quello che mostra chiappe e tette. Animalità priva di arte. Il corpo è bello di per sé a prescindere che tu lo scopra, lo faccia vedere. Va rispettato! Ha una sua sacralità! Se è solamente animalità non è più arte, non è nulla. L’arte è anima.

 

Scrive: “Quante volte di fronte all’aurora viene raggiunta la sensazione di percorrere insieme con il sole il suo puntuale cammino”. Io ho sentito stupore. Ispirazione, spiritualità, stupore… cosa li lega?

Tu devi pensare che una cosa è quello che scrivo, perché lo posso ritoccare, nasconderlo, perderlo, credo che quando invece si parla è diverso, devi seguire il pensiero, la sua immediatezza, la praticabilità di senso. Quando si scrive è tutto più ponderato, una parte di noi è gioco. Il gioco per me è fondamentale, perché l’arte è anche gioco, se non c’è gioco non è arte. Nel senso più alto del termine. Candore, perché solamente chi gioca ha il candore. Poi arte è spirito, perché dietro il gioco c’è sempre l’apprendimento per la vita. Reale o immaginaria. Sono due cose parallele, camminano di pari passo. Però se una ha la prevalenza diventi folle. Se ha la prevalenza la concretezza diventi una puttana che lavora per il mercato. Quindi c’è sempre questa duplice possibilità di eccedere. L’importante è riuscire ad essere folli di buon senso (ride, ndr).

 

Non esiste!

E sì! Io sono un folle di buon senso! Provo a non eccedere.

 

E i colori?

Non è un pittore a fare la tela, è la tela che fa lui. È un’altra cose, tu devi essere mite, umile esecutore che porta il colore. Però è la tela che determina quello che vai a fare. Ti dico un segreto, che non ho mai detto. Quando ho finito una tela restano dei colori, io li mescolo tutti insieme, e quello è il colore da cui parto per la tela successiva. Sai da quanti anni va avanti questo gioco? Da quarant’anni. Da Natura Mirabilis. Perché? Perché il colore non esiste. Il colore è un invenzione. Dipende quanto adoperi quello, quello e quell’altro, che ti dà un colore, poi questo colore lo mescoli con un po’ di bianco e parti per la tela dopo. Una volta che tu fai una fila di avanzi di colore lunga quarant’anni ti rendi conto che non sei tu a decidere il colore con cui parti. È qualcosa che è già in percorso. Cioè nei miei colori di oggi c’è una piccola parte di Natura Mirabilis, ma ci sono tutti i processi antecedenti. Il colore è gioco. Non sei tu a farlo, è lui che si fa, che si va a determinare. Hai una trama di disegni e vai su questi segni. Segni che potrebbero imprigionarti o liberarti. Sono i colori che fanno questo artificio, questo imbroglio! Perché in sostanza quello che tu vai a dipingere è un invenzione, non esiste, non c’è. Sai di sicuro non c’è niente quando parliamo di arte. Siamo sempre sul bordo di un burrone.

 

Possiamo fare il gioco di dire ciò che c’è e non è.

Quello che è certo è che dobbiamo nutrirci due volte al giorno, e bere più spesso. Questo è un dato di fatto. Altra cosa certa è che un giorno dovremo passare ad altra dimensione.

 

E se passiamo alla spiritualità più materiale, quale forma ha la sessualità?

La parola sessualità mi dà ai nervi.

 

Cos’è “Amplesso Cosmico”?

L’Amplesso Cosmico è la fusione del maschile e del femminile… quando penso all’Abbraccio Cosmico penso che senza dubbio c’è l’eros. Nell’amore c’è l’eros e c’è l’amplesso cosmico, maschile e femminile. Perché ogni volta che un uomo e una donna hanno attrazione, amore reciproco… può nascere una vita! È una cosa straordinaria. La sessualità non mi riguarda.

 

In questo quadro è difficile stabilire chi è l’uomo e chi la donna.

Eh! Proprio per il rispetto delle differenze. Comunque se metti via questa intervista e la adoperi postuma è molto meglio! Non è che devi aspettare molto tempo, sarai una giovane signora.

 

Allora la morte?

L’ho vista molte volte. La prima volta era venuto un prete ed ero completamente immobilizzato perché mi avevano fatto tanto di quel siero antidifterico che mi era venuta una forma di orticaria e mi hanno dovuto legare una decina di giorni. Ogni tanto si ricordavano di levarmi la padella e per non perdere tempo la lasciavano lì sotto al sedere. Però sono stato esattamente 43 giorni senza mangiare, ero diventato trasparente. Un giorno mi slegarono, vennero due infermiere, e dissero “laviamolo, questo non arriva a domani” con uno straccio, stavo sul letto gelato con un lenzuolo addosso, era aprile, venne il prete e mi diede l’olio santo. Solo che io avevo una tale rabbia che aveva posato il barattolo dell’olio sul comodino a sinistra, e siccome volevo dire qualcosa ma non potevo parlare ho buttato l’olio santo per terra. Il prete fuggì. Questo è stato il giorno di una morte vicina. Poi quando mi hanno fatto scavare la fossa, poi un aereo che è caduto… parecchie altre volte è stata vicina. Allora in quelle situazioni non mi faceva paura perché credevo che sarei riuscito  a sopravvivere. La morte è un passaggio. Un passaggio che dura dal primo momento che si nasce. Adesso non mi fa proprio nessuna impressione. Sai perché? Perché lavoro talmente tanto per guadagnarmi il senso della vita che la morte non mi fa paura. Vorrei dei funerali celesti, certamente. Però mi accontenterò di farmi bruciare. Perché… mi sembra che sporcare la terra con il proprio disfacimento sia brutto, non mi piace l’idea. E poi vorrei che le ceneri fossero buttate via al Tevere. Quello che è importante è come rinascerò. La volta prossima spero di essere meno travagliato, di avere una vita più armonica.

 

Credi alla reincarnazione?

Sai, quando tu mangi un pezzo di pane, questo pane da cosa è stato nutrito? Questa spina di grano chi l’ha alimentata? Chi ci ha preceduto e quindi c’è, è una continua metamorfosi a prescindere dalla reincarnazione che senza dubbio è una cosa affascinante, ma… ci sarà anche. Noi siamo due chili e 750 grammi di materie prime ed il resto è acqua. Quindi acqua siamo, terra siamo e torneremo.

 

E il senso della vita è dato dalla pittura?

È un mélange di tante parti su un’unica idea della vita. Io facevo cose assurde, portare ordini a memoria per non sbagliare parole (durante la Resistenza), pensavo che se avessimo vinto il mondo sarebbe stato migliore. Mentre invece non l’ho visto migliore e questo mi addolora, non per me, io ormai ho pagato il mio prezzo, ma per quelli che verranno. Io ho quattro nipotine che adoro… Dunque più spirito, più rispetto per la vita, più amore per la vita. Da questo punto di vista mi sembra di non aver fatto abbastanza. Non per cambiare la società, ma per essere utile, necessario.

 

In cosa?

Impegnarmi di più, lavorare di più – il medico dice che dovrei lavorare mezz’ora al giorno per l’occhio, ma come faccio? Io se esisto è perché studio, è perché leggo, perché dipingo, non mi interessano i night, i liquori, gozzovigliare, andare al Maurizio Costanzo, ho rinunciato a molte cose, ho la tessera per il tram, io esco di qui (dallo studio) vado a casa, mi metto in pigiama, mangio la minestrina, se c’è qualcosa di divertente lo vedo (in televisione) di solito i programmi che mi piacciono finiscono subito, non tornano mai. Detesto i film dell’orrore, i thriller.

 

Dopo tutto quello che ha detto sul mercato dell’arte si può dire che l’arte è morta

Quando il grande critico Argan ha scritto che l’Arte è morta aveva un momento di depressione.

 

L’aveva preso da Hegel!

Sì. L’artista lavora sui sogni.

 

Si ringrazia la Prof.ssa Milena Gammaitoni che concede la pubblicazione.